Da almeno trent’anni, tanto a livello nazionale quanto nel contesto europeo, è andata affermandosi una particolare “sindrome” che potremmo opportunamente chiamare: “mal di riforma”. “Sindrome”, perché afferisce a una condizione patologica degli organismi – lo Stato italiano nel primo caso, l’Unione europea nel secondo -, e non già alla loro fisiologia.
In maniera sommaria, possiamo datare le prime manifestazioni di questa patologia all’inizio degli anni ’90, quando il venir meno della divisione bipolare del mondo (Stati Uniti e alleati da una parte, URSS e suoi orbitanti dall’altra, con in mezzo le pseudo-eccezioni dei “non allineati”) impone l’adeguamento a un nuovo ordine di rapporti internazionali che, tuttavia, non si conosce ancora bene quale effettivamente sia. In assenza di paradigmi certi, si prende a “schema-guida” una struttura globale nuova nella quale vi sarebbero ancora superpotenze in competizione (USA, Russia, Cina), ma anche più interdipendenze e mobilità tra tutti i paesi del mondo (globalizzazione), e un’Europa finalmente unita che si vorrebbe in grado di condizionare in maniera determinante i rapporti geopolitici. Un’Europa che, per raggiungere questo obiettivo, deve essere capace di “funzionare” in maniera efficace potenziando semplificazione, duttilità e rapidità nei processi decisionali – pena la sua insignificanza a livello politico-planetario. Ne conseguono le raccomandazioni dettate un po’ a tutti gli Stati membri: riformare le istituzioni rafforzando i poteri “esecutivi” e riducendo, per contro, poteri e procedure degli organi rappresentativi e legislativi (i Parlamenti). Nella realtà, tuttavia, le cose si sono rivelate alquanto più complesse.
Nel contesto nazionale, l’ansia di riforma si è nutrita per trent’anni di una retorica del “cambiamento” spesso finalizzata a se stessa. A farne le spese è stata, essenzialmente, la Costituzione, la quale è risultata ripetutamente offesa da tentativi di “riforma” a cui, in due casi, è corrisposta una netta bocciatura da parte dei cittadini per via referendaria. Così è stato nel 2006 per il disegno di revisione costituzionale disegnato dal centro-destra; così si è ripetuto dieci anni dopo con la riforma cosiddetta Renzi-Boschi. Sorte opposta ha invece ricevuto la revisione del Titolo V, promossa dal referendum del 2001, mentre l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione (riforma determinante, con effetti diretti e tangibili sulla vita economica dello Stato e dei cittadini) ha ottenuto, nel 2012, un consenso parlamentare tale da non dover ricorrere al referendum confermativo (e chissà cosa sarebbe accaduto se fosse stato fatto!).
Il 20 e il 21 settembre prossimi toccherà a nuova chiamata referendaria, questa volta per esprimersi sulla riduzione del numero dei parlamentari (alias, legislatori; alias, rappresentanti eletti dei cittadini). Tema non di poco conto, se si considera il trend che vorrebbe una limitazione progressiva del potere legislativo delle Assemblee a favore dei Governi. Inutile negare che un risultato positivo avvalorerebbe in qualche modo questa tendenza (benché una riforma del numero degli eletti non tocchi,
ipso facto, anche le loro funzioni). Meglio sarebbe stato agire sul funzionamento legislativo delle Camere, attualmente già fortemente compromesso da molti debordamenti del potere esecutivo (pensiamo all’abuso della decretazione). L’incognita sulla prossima legge elettorale, inoltre, alimenta ulteriori inquietudini, come quelle di chi vi vede un salto in buio (democratico). Forse non sarà così, forse è esagerato pensarlo, ma molte spie inducono a temerlo.
La realtà (banale ma tristemente vera) è che da premesse sbagliate non possono che scaturire conseguenze altrettanto sbagliate. La proposta di riforma su cui andiamo a esprimerci è stata pensata e votata in un quadro di “tattiche” effimere, autoreferenziali, contingenti. Tattiche, non strategie politiche, che si cristallizzano nella ripetizione di una retorica del
cambiamento per il cambiamento, priva di visione, di progetto, di futuro. Come nei precedenti tentativi di riforma, si gioca alla Costituzione senza percepirne il pericolo. È avvilente dovere constatare come, negli ultimi trent’anni, il patrimonio costituzionale sia diventato materia di baratti e di interessi di corto raggio (p.es.: la conferma di un governo, il puntellamento di un potere, lo smantellamento di un potere intermedio, ecc.), di fatto senza rispetto per i principi fondamentali della Carta e senza una effettiva connessione con i bisogni del Paese.
Ma c’è di più. Il “mal di riforma”, da cui la classe politica italiana sembra non volere guarire, porta con sé un effetto su cui non si è ancora riflettuto abbastanza: il rallentamento o, peggio, l’impedimento all’attuazione materiale di molti articoli della Costituzione stessa. Quante articoli della Carta, in oltre settant’anni di vita repubblicana, non si sono tradotti in leggi ordinarie? Basterebbe pensare alla sostanziale mancanza di una legge sulla democraticità dei partiti in l’attuazione dell’art. 49, oppure all’assenza di una legge sull’asilo in attuazione dell’art. 10. L’elenco potrebbe essere più lungo, ma ciò che qui preme mostrare è come la “riformite” recidiva intervenga a spostare continuamente l’attenzione da questa necessità fondamentale:
l’attuazione dei principi costituzionali mediante leggi ordinarie. Anche questa volta, nel recarmi alle urne, non potrò evitare di pensare a quante leggi sarebbero da promulgare per rendere effettiva la Costituzione, anziché procedere a riformarla pezzo dopo pezzo.
E l’Europa? L’Unione europea, che chiede agli stati riforme in nome dell’efficienza, non possiede una Costituzione. Il suo tessuto connettivo sono due Trattati istitutivi: il TUE (
Trattato sull’Unione europea) e il TFUE (
Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Il tentativo di dare corpo a una Costituzione europea (
Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa) è drammaticamente fallito di fronte agli esiti negativi dei referendum sulle ratifiche in Francia e nei Paesi Bassi (2005). Un punto di non ritorno che ha segnato negativamente gli sviluppi, non solo istituzionali, dell’Ue. Per rendercene conto, basterebbe osservare le resistenze che incontrano gli atti legislativi del Parlamento europeo da parte del Consiglio europeo, organo intergovernativo oltremodo condizionante. Gli stalli, le assenze, le inefficienze rimproverate da più parti all’Ue risiedono, per molti aspetti, in questa tensione irrisolta tra l’organo di “rappresentanza” dei cittadini europei e il potere dei Governi.
Nonostante ciò, il fallito progetto costituzionale europeo ha lasciato sul campo una eredità importante: la
Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Originariamente pensata come seconda parte del progetto costituzionale, con il Trattato di Lisbona, nel 2009, ha assunto carattere vincolante per gli Stati membri. Al suo interno trovano compiuta espressione i “diritti fondamentali” della “persona” che gli Stati sono chiamati a garantire. Potrebbe costituire il punto di riferimento, il patrimonio di valori condiviso a cui guardare per possibili riforme costituzionali nei diversi Paesi europei. Potrebbe, ma ben difficilmente lo sarà: perché i richiami alle riforme costituzionali che vanno ripetendosi con diversa intensità si interessano essenzialmente ai meccanismi, e non al DNA, della costruzione europea. Con un unico obiettivo: rafforzare l’azione dei governi, non importa a quale prezzo per la rappresentanza democratica.