PRIMA GLI ITALIANI? Contraddizioni e pericoli di uno slogan

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Prima gli italiani!

Prima dei “clandestini” (lemma onnivoro dove si “ammassano” richiedenti asilo e imprecisate tipologie di migranti), dei “rifugiati”, degli “apolidi”, dei “nomadi”, di chiunque non possieda, giuridicamente, la cittadinanza italiana, di qualsiasi persona non abbia sul passaporto l’aggettivo “italiana” alla voce nazionalità. Di qualunque “straniero”, insomma.

Prima gli italiani, dunque. Ma di quali italiani si va parlando? Di tutti? Di una parte? Di una porzione, magari ideologicamente ben fidelizzata? E poi: quali vantaggi reali può dare un primato di appartenenza nazionale che la Costituzione non ha mai postulato, evitando di aggiugere l’aggettivo italiano alla parola cittadinanza? Quali guadagni economici potranno concretamente derivare agli “italiani” (plurale generalizzante)  da ciò che si prospetta funzionale a codesta primazia? Ossia: dalla chiusura delle frontiere esterne, dalla stretta su visti, su permessi di soggiorno e riconoscimenti di cittadinanza, da strumenti di controllo sempre più polizieschi su persone e gruppi la cui accoglienza è, ad oggi, delegata soprattutto a soggetti del terzo settore (laici, religiosi, umanitari in generale), il cui personale risulta in massima parte composto proprio da cittadini italiani? Soggetti, ancora, coinvolti quasi sistematicamente nelle emergenze, a diretto contatto con le situazioni più critiche, mal retribuiti (poco e quasi sempre in ritardo) dagli organi statali  e, da un po’ di tempo, tacciati pure di oscure (e improbabili) complicità o correità.

Forse varrebbe la pena di porre la domanda in altri termini: quali italiani potranno guadagnarci e quali, invece, avere la peggio da una stretta su accoglienza e integrazione fatta in nome di un ostentato primato nazionale? Una domanda che si consuma tutta nel perimetro della cittadinanza nazionale, dal momento che appare scontato il prezzo che dovrà pagare chi italiano non è. Per logica, a guadagnarci dovrebbero essere, in primo luogo, gli organi di controllo: dalle polizie frontaliere alla Guarda costiera, al sistema delle Questure e delle Prefetture che, negli ultimi anni, hanno visto notevolmente ampliate le loro competenze in materia di migrazioni e asilo. A tale estensione operativa dovrebbe infatti corrispondere un aumento delle risorse (economiche prima di tutto, quindi anche di mezzi e di personale), per altro in linea con l’orientamento securitario europeo che mira a perimetrare le frontiere esterne e a impermeabilizzare le sue nazioni.

Nella coperta sempre più corta del bilancio nazionale, a farne le spese saranno, invece, proprio i soggetti del terzo settore. Si tratta di quei soggetti che, nel corso degli anni, hanno evitato l’insorgere di conflitti, contrastato la dispersione umana dei migranti, offerto vie (per quanto strette) di integrazione nel rispetto di una legalità non sempre solidale. Che hanno cercato di arginare le devianze verso criminalità, violenza e sistemi di sfruttamento. Che hanno declinato competenze specialistiche (mediche, psicologiche, antropologiche, sociologiche) a servizi spesso di pura “supplenza” rispetto alle funzioni dello Stato. Che hanno attutito l’impatto dell’accoglienza su Comuni ed Enti locali, abbondantemente ridotti di risorse. Che hanno permesso lo sviluppo e l’impiego di mediatrici e mediatori culturali, figure chiave per l’accoglienza e l’integrazione, sovente presentati come semplici traduttori, in realtà autentici “vettori di democrazia” presso i gruppi di migranti. Di tutti costoro si potrà fare senza?

Prima gli italiani, dunque: ma non tutti. Lungi dall’essere inclusiva, la logica del primato nazionale è profondamente divisiva. Ammettendo una linea verticale di subalternità, crea le condizioni per i contrasti e conflitti, essa mina alla radice la convivenza sociale, nega il carattere universale dei diritti della persona. Ecco allora il contesto che vede poveri italiani contro poveri migranti, lavoratori italiani contro stranieri e via di questo passo. Le conseguenze sono nelle espressioni che si sentono quotidinamente, negli atti viscerali e violenti che si succedono, nelle scelte politiche che si stanno adottando.

Prima gli italiani, allora, ma non tutti. Fuori dal gruppo predominante, insieme a migranti e affini, sono tutti quelli che con i profughi ci lavorano, in quei luoghi di sutura dove la coscienza dei diritti si misura quotidianamente con la sua applicazione. Tutti coloro – e sono tanti – che, per vocazione o per professione, agiscono criticamente verso le strutture di potere, guardando ai bisogni della cittadinanza a partire dalle persone più deboli. Adesso – anche per sovraesposizione mediatica – sono i migranti e i richiedenti asilo. Presto, con l’affermarsi di questa logica escludente, il cerchio si allargherà ad altre fragilità sociali, ad altre figure fuori dall’integrazione che domandano assistenza e non si possono cancellare dal corto orizzonte. Nella logica primaziale che va affermandosi è il terzo settore a perderci.  Le sue istanze faticano a diventare politica. La sua stessa realtà rischia di venire soppressa, schiacciata da più parti, non ultima quella dell’indifferenza. Poco importa del patrimonio che si disperde, dei servizi che si chiudono, dei disoccupati (italiani) che si creano.  Perché c’è chi pensa, purtroppo sempre più seriamente, che di questi italiani “impegnati” si può fare tranquillamente senza.

 

DR, 07.09.2018

 

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